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Un fattore disorientante per gli studenti è comprendere e accettare la possibilità che la poesia possa essere significativa e comunicativa all’interno di schemi metrici predefiniti, e non solo come espressione libera, persino irrazionale, dell’interiorità dello scrivente.

In altre parole gli studenti adolescenti, in genere tra i quattordici e i sedici anni, non riescono ad intendere la poesia come un atto comunicativo, come un’operazione di comunicazione, di trasmissione di contenuti, emozioni, impressioni, vissuti.  E quindi con delle regole tecniche, persino delle rigidità proprie del mezzo comunicativo, delle priorità.

La poesia alla loro età può essere vista secondo due principali punti di vista: mero sostitutivo del loro diario personale o genere letterario per lo più antico, ammuffito, stantio, di sicuro anacronistico.

In entrambe le situazioni la scrittura in versi viene deprivata del suo più intrinseco valore, quello di forma di comunicazione.

Forma atipica, non c’è che dire, ma pur sempre veicolo di significati – e non di significato, il perché lo spiegherò più avanti – come l’arte figurativa, come la lirica, come l’arte che non contempli necessariamente immagini in movimento.

Il movimento – conquista del cinema del ‘900, a partire dai corti di George Méliès – impegna la nostra attenzione/concentrazione in continue operazioni molto rapide di codifica e di recupero delle informazioni, i cosiddetti frame sono stimoli visivi che sollecitano l’occhio prima ancora che raccontare un fatto o una situazione.

La videoarte in questo senso si espone all’arduo compito di coniugare la riflessività propria dell’arte figurativa – pittorica o scultorea – con l’adrenalina dei frame, delle iterazioni continue, delle sfocature improvvise.

Per tornare alla poesia, gli studenti di oggi, più che mai sono cresciuti nella cosiddetta “società della comunicazione” dove il tempo d’interazione si gioca su brevissimi attimi: la pubblicità deve essere incisiva, la cartellonistica geniale, le parole poche e misurate.

Se poi alle parole sottraiamo il fascino della loro letterarietà – nel senso di tradizione intellettuale – ciò che rimane sono i significati primi, il grado zero della comunicazione, l’immediatezza pura e semplice.

Prima ancora degli alunni è la società stessa ad aver relegato la poesia in un angolo, un angolo persino fisico, concreto, esistente: quello delle librerie, quello degli scaffali su cui sono riposti i soliti libri dei soliti poeti, nelle zone più recondite del locale, vicino agli uffici o agli sgabuzzini, scaffalature micro ed attorno i colori delle copertine dei best sellers americani o delle agendine da aspiranti scrittori.

Qualche volta mi capita di cercare su Youtube i video delle apparizioni dei nostri poeti alla televisione, immagini sgranate, in bianco e nero, con un audio frusciante e stentato: Montale, Ungaretti leggono le loro poesie in prima serata, nell’unica rete della Rai, e sono loro i poeti d’Italia, stanno lì a comunicare, prima ancora che a leggere, prima ancora che ad incarnare un ruolo, ad indossare una maschera.

La società di allora, sebbene presa dalla frenesia del boom e della ricostruzione del Dopoguerra, non si sottraeva all’attribuire un posto d’onore alla poesia, al momento di riflessione. Ecco, la poesia necessita di un silenzio, di prendere un bel respiro e restare concentrati per un tempo brevissimo – spesso durevole quanto uno spot pubblicitario – ma carico di immaginari, di tradizioni, di suoni, colori, persino odori – come non percepire l’odore delle tamerici di D’Annunzio o dei limoni montaliani? – che proprio attraverso la cecità dello sguardo – le poesie andrebbero davvero ascoltate ad occhi chiusi – compongono un itinerario di sensi e significati. A parità di brevitas dunque, la poesia ha bisogno di attenzione attiva, di voglia di stupore, il primo passo deve essere dell’uditore, la scelta deve essere consapevole; la pubblicità, la messaggistica contemporanea invece, perché possa funzionare a dovere, ci deve trovare inerti, passivi, persino impreparati: a lei è già demandato il compito di sottoporci ciò per cui vale la pena provare un sentimento piuttosto che un altro, una frenesia, un desiderio, persino un’opinione.

Che senso può dunque avere proporre a scuola la lettura di poesie durante le ore di italiano? Ci dobbiamo travestire da “maestrine con la penna rossa” e far imparare a memoria “Pianto antico” di Carducci o è possibile scardinare ciò che la tradizione della scuola propina da anni oramai – alla stessa stregua de “I promessi sposi”, aggiungo io – a guisa di strumento imprescindibile per prendere confidenza con il testo letterario, nel nostro caso poetico.

Se volessi, potrei aprire una tediosa finestra su ciò che è poesia e ciò che non lo è, potrei citare la beat generation come momento di svolta, ma mi limiterò a dire che se di sviluppo delle competenze, con relativa valutazione, dobbiamo parlare, allora occorre inquadrare la questione poesia sotto quanti più aspetti sia possibile affinché gli studenti si rendano conto dell’assoluta attualità dello scrivere in versi e si rendano partecipi loro stessi della costruzione delle loro conoscenze a proposito. Quanto più sia loro umanamente possibile.

Quali competenze ci si dovrà aspettare che i ragazzi acquisiscano al termine del percorso?

Io un’idea me la sono fatta. Innanzitutto ritengo che leggere poesia stimoli aree del cervello o del cuore – dipende dove decidiamo di riporre le nostre emozioni – talmente inattive che persino si ha l’idea che non esistano, muscoli atrofizzati che non hanno capacità autonome.

Saper ascoltare è già una competenza, lo è anche saper leggere, perché un testo poetico non si legge come una lista di cose da fare, né come un messaggino arrivato durante l’ora di lezione e letto furtivamente. Saper ascoltare e saper leggere poesia. E poi ancora saper riflettere sul perché definiamo poesia una serie di frasi scritte una sotto l’altra – e non più semplicemente un testo verticale – e perché quelle frasi si chiamano versi e perché quando li leggiamo non sempre seguono l’ordine del parlato. Saper riconoscere un testo poetico.

Ogni verso è una miniera di giochi, di artefici retorici, di sottolineature senza alcuna traccia di segni di matita, di suoni che arrivano prima ancora dei significati delle parole stesse: saper analizzare a livello retorico un testo. E poi accorgersi – sempre con grande stupore – che con quei nomi così astrusi delle figure retoriche ci possiamo definire tantissimi elementi della comunicazione mediatica quotidiana, e così dalla poesia polverosa, dai chiasmi e dalle sinestesie e dai polisindeti arriviamo al cartellone sotto casa, al manifesto alla fermata del tram, alla reclam dei biscotti.

Se la poesia è riconoscibile dal mosaico di suoni che compone, allora la musica non può fare a meno della poesia: “poesia in musica” era il titolo di un percorso che ho svolto negli anni passati, quest’anno l’ho tralasciato per motivi di ordine pratico – tantissime interruzioni delle lezioni – ma a cui ho fatto riferimento continuamente, chiedendo ai ragazzi che musica avessero caricato nei loro lettori mp3, invitandoli a ragionare autonomamente sulla metrica della musica hip hop, sull’uso delle rime e delle assonanze.

Non ho scomodato mostri sacri come De Andrè, Tenco, Dalla e Guccini, non sono entrato in classe con lo stereo come in passato, ma il rimando alla musica è stato sempre costante. Saper fare collegamenti, saper applicare quanto studiato ad altre espressioni artistiche.

Leggere Leopardi e poi subito dopo Montale o Caproni e poi tornare a Petrarca e magari ancora dopo una contemporanea come Silvia Bre, senza star lì a fare la storia della letteratura – è cosa infatti del triennio – permette di stimolare la competenza critica dei ragazzi, staccandoli da facili ragionamenti in base al contesto storico del poeta appena letto e di farli concentrare sul testo, sui significati, generali se ci sono, personali ben vengano. Saper esprimere la propria opinione su di un testo, competenza critica.

Se poi durante tutto il lavoro, capita che i ragazzi si emozionino, imparino a vivere, prima ancora che a leggere, i versi, ecco che subentra quell’aspetto della competenza che attiene alla sfera affettiva, emotiva, mediante la quale l’individuo impiega molto più del proprio studio o della più o meno attenta disciplina, mediante la quale ciò che si è letto diventa un valore aggiunto alla propria crescita.

Sarebbe da ipotizzare anche una fase di scrittura domestica, al termine del percorso, come gioco ma anche come esercizio di scrittura, viste le enormi superficialità presenti spesso nei temi degli alunni del biennio.

Il laboratorio di scrittura è per me un luogo incontaminato dove oltre a sperimentare, a divertirsi facendo, s’impara a superare timidezze e introversioni, a mettersi in gioco e ad accettare l’altro, gli altri componenti del gruppo.

Certo che l’analisi delle cose scritte a casa sarebbe un bell’esempio di compito autentico, attraverso cui monitorare non solo le nozioni di base imparate sui libri ma anche vedere se qualche “scintilla” si sia accesa durante il ciclo di lezioni.

In quel caso la valutazione finale potrebbe essere davvero autentica, figlia di un percorso che vede coinvolti a trecentosessanta gradi gli studenti e che permetterebbe loro, nel corso degli anni successivi, di continuare a coltivare il piacere della scrittura.